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Visita ad un caseificio di Gorgonzola negli anni Trenta del secolo scorso

Aggiornamento: 8 ott 2021


Il racconto Phisique du role, di Alberto Vigevani (Milano 1918 - 1999), prolifico scrittore ed editore, descrive una sua visita fatta da bambino a un caseificio di Gorgonzola. Il piacevole testo fornisce preziose informazioni sull'aspetto del paese negli anni Trenta del secolo scorso.


Tondo e bassotto, floscio di carni come uno stracchino che si dislinquisca nell’involucro, fra tutti

si impone come in qualità di modello il rinomato fabbricante di quei formaggi che si facevano allora solo a Gorgonzola, con la cremosa panna del latte delle stalle sparse nei prati irrigati da un reticolo di canaletti che diramavano dal naviglio Martesana. Prati nutriti dal letame prodotto dalle stesse mucche ch’essi nutrivano con tre o quattro tagli l’anno, o persino sette se si trattava di marcite. E da ogni taglio nascevano, per altrettanto mirabile e graduale metabolismo, forme di gorgonzola nelle quali respirava l’arioso, distinguibile fermento d’ogni diversa stagione.

Vidi il maestro casaro” o “caciaro” appena una volta, eppure la sua figura non mi è uscita di mente, anche perché, per un lungo seguito di anni, fin pressappoco alla scomparsa di mio padre, per rinverdirla – è il termine giusto – arrivavano a casa olezzanti rotelle rivestite di carta argentata o dorata. Secondo che, penso, si trattasse di gorgonzola fresco (o stracchino, termine usato un tempo soltanto per il cacio fatto dal latte delle mucche “stracche”, di ritorno dai monti), il quale, tagliato con una lama di legno, gonfiava istantaneamente guance paffute, talvolta cadenti; ovverossia di stagionato, tutto verdi e muffosi anfratti, da cui accadeva si sfilassero pallidi vermi dal corpicciuolo a chiocciola o meglio a vite. Per l’irrequieta presenza dei quali si diceva, con apprezzata metafora, che un tale quasi miracolato formaggio camminava da solo.


L’incontro col mio raro modello avvenne un inverno, poco prima o poco dopo Natale. Salii insieme con mio padre su un convoglio di tre carrozze tranviarie – anch’esse , per superiore armonia, color panna – che partiva per Gorgonzola da una parallela di corso Buenos Aires, vicino alla vecchia stazione centrale. Fuori dall’abitato, il convoglio si mise a correre lungo il Naviglio, sbattendoci aritmicamente. Inginocchiato sul sedile, il viso contro il cristallo del finestrino, lasciavo scivolare lo sguardo sullo specchio del canale, a tratti plumbeo sotto banchi di nebbia sospesi un metro dall’acqua; a tratti inargentato dai raggi di un frigido sole. Nel riflesso, le ruote dei mulini, dalle grandi pale incipriate di brina, di piegavano in due.


Dallo slargo pavimentato a ciottoli, nel quale si era fermato il nostro convoglio, il borgo appariva e spariva tra fumate d’una lattea caligine che, avvicinandoci, si dissolvevano raso terra. In fondo a una via non lastricata e seminata di pozzanghere, entrammo per un alto arco di mattoni nella corte della cascina trasformata, con una generosa mano di calce e l’apertura di qualche finestrone, in “Premiato caseificio”, come si leggeva a grandi lettere sulla facciata. Avvolto in uno svolazzante camice bianco, le brevi braccia festosamente levate, il padrone ci trotterellò subito incontro. Aveva occhi d’un acquoso ceruleo, la pelle come strofinata dal gesso e cosparsa di crosticine rosate. Ci apostrofava, imbarazzato e cordiale, “el cor in man”, diceva in un trafelato dialetto, accompagnandoci, dopo l’assaggio di uno stracchino tremolante, corretto da un sorso di frizzante vinello casalingo, a visitare i locali della stabilimento, tappezzati fino alla statura padronale di nivee piastrelle.

Lo rivedo precederci col passo silenzioso eppure appena frusciante di certi scarponcini di feltro, ne risento le spalancate vocali mentre con pudico rapimento parla delle stagioni, dei maggesi e dei tardivi, delle vicissitudini non soltanto dei tagli ma delle sempre diverse metamorfosi dello stracchino, governate (aristotelicamente) dal capriccioso alternarsi dell’umido e del secco. Passiamo davanti a fumiganti caldaie, a vasche di rame martellato e risplendente; calpestiamo pavimenti di mattoni d’un pallido rosso, già sulla soglia di depositi scaffalati, traboccanti di forme ben compresse e salate. La sua butirrosa sapienza pareva, nell’espandersi, farlo fiorire dentro il “suo” formaggio, come una pianta che cresca in un terreno adatto e generosamente concimato. Allungava il breve corpo per stampare le corte dita di quasi palmipede sulla crosta verdina della rotella, o per testarne un’altra con la esperta premura di una balia che assaggi, carezzandole, le sode e insieme tenere carni del suo infante.

Ma mentre vaga si è fatta la memoria degli occhi, quella dell’olfatto meglio trattiene le variazioni che mi aggredivano a tepide folate succulente. A mano a mano che avanzavamo dai magazzini delle forme ancor fresche in quelli nei quali se ben ricordo rasciugavano, fermentando, le mature, i vaporosi e dolciastri effluvi inacidivano per corrompersi, sul filo del traguardo, in un putrido fetore che impregnava i capelli, il viso, l’abito. Superata la ripugnanza iniziale, lo annusavo lascivamente, così che me ne staccai a malincuore per respirare, nella corte in cui si accumulavano bidoni vuoti, l’insulsa nebbiolina che vagamente sapeva di siero”.


Questo delizioso racconto è stato scritto da Alberto Vigevani (Milano 1918 - 1999), scrittore, editore, critico teatrale e letterario. Al di là della bella e colorita scrittura, offre una testimonianza sulla produzione casearia ancora artigianale del gorgonzola e sull'aspetto del paese, collegato a Milano dalla prima tramvia elettrificata, con la piazza acciottolata e le vie secondarie ancora in terra battuta.


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